mercoledì 10 giugno 2015

Joaquín e l'imprevedibile virtù della ripartenza


Il talento non basta per descrivere o addirittura giustificare le sue "tante vite". No, il talento non basta.







Ci sono persone che non vivono solo una volta.
Oggi Joaquín Sánchez Rodríguez, meglio noto come Joaquín, ha 34 anni ma ha vissuto 9 delle nostre vite. Vite leggere, vite eleganti, a volte sfuggenti, a tratti inconsistenti. Vite da solista come in un "baile" flamenco dell'Andalusia, la sua terra, dove il ballerino è anche il coreografo della propria esibizione.
Joaquin ha indossato mille pirandelliane maschere, forse troppe: il ragazzo prodigio con l'anima e il sangue dipinti del bianco e del verde del Betis, il migliore in campo nella "disfatta" della Spagna contro la Corea che sbaglia il calcio di rigore decisivo, mister 120 miliardi, l'ala destra più forte al mondo, il traditore che rinnega patria e famiglia quando se ne va dal Betis, l'uomo che non rispetta le attese al Valencia, l'oggetto misterioso, la seconda giovinezza a Malaga, la svolta totale a Firenze.


Tutto questo continuo finire per poi ricominciare, questo morire e poi rinascere in altri contesti, in altri tempi e in altri spazi, tutte queste vite: niente è completamente slegato dal resto, c'è una continuità nella storia di Joaquin, c'è un'armonia che accompagna costantemente i momenti chiave della sua carriera. E' la storia di chi non si è mai potuto permettere di essere giovane: il talento nitido, cristallino e soprattutto precoce non glielo ha mai consentito, i 120 miliardi di clausola non glielo hanno consentito, la simbologia sacra del Betis Siviglia non glielo ha consentito.
La città di nascita è quel Puerto di Santa Maria da dove Colombo partì nel suo secondo viaggio per le Americhe. Una ripartenza, appunto. Ce ne sono state tante, sia sul campo che nella carriera di Joaquin. Tante seconde possibilità che non gli sono state regalate ma che l'andaluso si è guadagnato, con la sua serietà, la sua professionalità e la sua umiltà.
Tartesso è terra di grandi toreri. Là questi eroi quasi mitici fanno parte della sfera sacra popolare, incarnando nello stesso tempo coraggio e danza, tradizione e poesia notturna. Un po' come le ali nel calcio: il toro da sfidare come il difensore di turno da dribblare.


Inizia tutto lì, nella terra degli zingari felici, probabilmente il miglior esempio di integrazione culturale a livello europeo e non solo, specie in questo periodo di ruspe e populismo galoppante. Basti pensare al Flamenco, nato tra le corde di qualche chitarra gitana ed emblema ormai universale dell’hispanidad. Proprio i migliori flamencisti, cantanti o ballerini che fossero, tra cui Rancapino e Ramon Nunez Nunez, meglio noto come Orillo del Porto, erano soliti riunirsi in un piccolo bar di Puerto Santa Maria, "El Chino"; il nome del proprietario è Aureliano Sanchez, padre di otto figli, di cui l’ultimo ha per nome Joaquin.


Il locale, inebriato dalla brezza marina, è un tempietto del Pisha, con tutte le maglie indossate in carriera incorniciate alla parete; c’è spazio solo per un cimelio che non sia imbevuto del suo sudore e della sua fatica, ed è la divisa di Luis Figo, suo idolo sin dall'adolescenza. "Chino" però non è il soprannome del padre, appartiene ad una figura se possibile ancora più importante per Joaquin: suo zio. Doveva essere una sorta di santone nella calle in quegli anni, un personaggio perfetto per un romanzo di Ernest Hemingway: amico di artisti, ballerini di flamenco, pescatori e semplici operai. Era in grado di parlare con gli occhi, uno sguardo limpido, glaciale, di quelli che non ammettono repliche. E’ lui ad investire per primo sul nipote, finanziandone gli allenamenti nella cantera del Betis. Leggenda vuole che durante le sedute pomeridiane, el Tio invitasse il mitico presidente Manuel Ruiz de Lopera al bar a sorseggiare una camomilla. C’è un bellissimo stralcio di intervista ad As, tutto intriso di amore e gratitudine verso El Chino, scomparso nel 2002 : «Él creyó en mí como futbolista. Por lo menos, mi padre puede disfrutar de lo que ahora tenemos, después de 'tó lo que hemos pasao', pero mi tío Joaquín, no». Ecco perché, ogni volta che protende le mani verso il sovralunare, la memoria va sempre là, a el Tio, il fenotipo dell’uomo di mare.  


Affronta la trafila delle giovanili e, dopo una stagione da protagonista nel Betis B, nel settembre del 2000 arriva l’esordio in prima squadra; l’allenatore è una di quelle persone che estrinsecano al meglio il mourinhano aforisma secondo cui chi sa solo di calcio non sa niente di calcio. Si tratta di Fernando Vazquez, el Maestro, allenatore del Betis in Segunda Division, nonché insegnante d’inglese e dottore in filologia tedesca. Ma al contrario di Federico Nietzsche nessuno prospetta per lui un futuro ruolo da leader intellettuale della propria nazione, così decide di virare sul calcio. E’ un fervente seguace di Arrigo Sacchi, che incontrerà da allenatore dell’Oviedo nel periodo colchonero del Vate di Fusignano. Lo irradia una forte propensione pedagogica: tra le sue mani a Maiorca sboccia il talento di Samuel Eto'o, ma anche quello di Dani Guiza e Albert Riera. Dopo sei anni consecutivi in Liga, nel 2000/01 il Betis è di nuovo impelagato in quella palude nota come Segunda Division. Il presidente Lopera si affida a Vazquez per la risalita. El de Castrofeito, nonostante la cessione del tandem offensivo Alfonso-Finidi, sfrutta al meglio i prodotti della cantera, tra cui ovviamente Joaquin, autore di 36 presenze e 3 reti. Saltano immediatamente all'occhio i dribbling ubriacanti e i cross millimetrici. I biancoverdi centrano la promozione, nonostante l’esonero a metà marzo del filologo gallego, causa incomprensioni con la dirigenza (si, gli stessi dei 750 miliardi di clausola rescissoria per Denilson).


La stagione successiva per Joaquin è quella della consacrazione nel massimo campionato. Timbra trentaquattro presenze e cinque reti: lui e Denilson, nonostante il rendimento romantico del brasiliano, dipingono pennellate barocche con la palla tra i piedi, puro edonismo applicato al calcio. Il Betis chiude al sesto posto, agguantando la qualificazione alla Coppa Uefa. Jose Antonio Camacho, CT della nazionale, abbacinato dal talento dalla giovane ala, lo convoca per il mondiale nippo-coreano. Credo che un po’ tutti siamo legati alla Spagna bella e perdente dei primi anni duemila (coppa Konami, do you remember?). El Pisha somatizza pregi e difetti di quella selezione, dal gioco a tratti inebriante, ma sempre inconcludente al momento decisivo. I mondiali del 2002 sono la competizione più ansiogena di sempre: partite alle nove europee di mattina, grandi squadre eliminate, presunte partite truccate (sul conto di Veron girano addirittura video di questo tipo... ), incroci tra gironi senza alcuna logica e decisioni arbitrali alquanto inappropriate. Tra le vittime, oltre al Portogallo, ci siamo anche noi: cinque gol regolari annullati in tre partite ed espulsioni discutibili. Dopo l’ormai iconica sconfitta contro la Corea del Sud anche gli spagnoli ci additano come i soliti piagnoni. Dovranno affrontare loro i padroni di casa, partita sulla carta abbordabile, nonostante l’assenza di Raul. Il match è a senso unico, Joaquin è indemoniato, dribbla qualsiasi avversario gli si pari davanti, forse la miglior prestazione individuale della storia della Roja. Ma l’arbitro, l’egiziano Ghamal Ghandour, annulla due gol regolari agli iberici e fischia un fuorigioco inesistente con il ventidue solo davanti al portiere. L’epilogo è tragico: alla lotteria dei rigori è decisivo proprio l’errore dell’andaluso. Il resto lo raccontano le immagini: Xavi e Puyol sconsolati, Morientes ed Helguera al limite dell’esaurimento nervoso. As, che tanto ci aveva denigrato, all'indomani della sconfitta pubblica un titolo eloquente: "ROBO! Italia tenia razon". E’ lecito pensare, dopo i recenti scandali e le dimissioni di Blatter, che Hierro non avesse poi così tanto torto nel cercare esasperatamente il contatto fisico con l’arbitro. Joaquin torna a casa avvilito, ma con la consapevolezza di essere entrato nell'orbita del grande calcio.

Le canzoni di sottofondo nei video di calcio dei primi anni di youtube erano decisamente migliori delle tamarrate electro-house che accompagnano qualsiasi filmato di "skills and goals" odierno.

Ne è conscio anche il presidente Lopera: si dice che nel calcio il marcatore più efficace sia la linea di bordocampo; Joaquin però l’ha sempre considerata come una donna da sedurre e accarezzare. L’unico terzino in grado di tarpargli le ali è quella maledetta clausola rescissoria da 120 milioni. La bacheca langue e purtroppo non è rimpinguabile in quel di Siviglia sponda Betis. Nel 2003, nonostante il record personale di nove marcature, deve accontentarsi dell’ottavo posto, mentre nel 2004 scenderà ancora di un gradino, sino alla nona posizione. Un barlume di speranza si riaccende nella stagione successiva: giunge in Andalusia per 6 milioni l’attaccante brasiliano Ricardo Oliveira (29 gol in 37 presenze) e, soprattutto, Serra Ferrer torna al timone della squadra. Il tecnico spagnolo aveva condotto i biancoverdi ad un clamoroso terzo posto nel ’95 e ad un piazzamento Champions nel ’97. Fautore del calcio totale di Cruijff, il Barcellona gli offre la direzione tecnica della Cantera; potrebbe sembrare un declassamento, ma per un vero conoscitore di calcio è il Nirvana. Nell'estate del duemila, causa dimissioni di Van Gaal, diventa allenatore della prima squadra. I risultati sono negativi: eliminazione al primo girone di Champions per mano del Besiktas, quinto posto a diciassette punti dal Real capolista alla trentunesima giornata e conseguente esonero. Lopera lo richiama in Andalusia, lui non tradisce e centra la qualificazione ai play off di Champions, con la solita proposta di calcio spumeggiante. Non solo, dopo ventott'anni riporta in bacheca la Coppa del Re, superando due a uno in finale l’Osasuna. L’anno successivo non rispetta però le attese e il Betis ottiene un disonorevole quattordicesimo posto.  

Capito cosa intendo per Nirvana?

Joaquin si sente oppresso, vuole migrare, accusa il presidente di averlo incatenato ad assurdi vincoli contrattuali. Nasce così una situazione kafkiana, uno degli aneddoti più assurdi legati al calcio mercato, di quelli che farebbero sobbalzare sul divano anche Gianluca di Marzio. E’ l’estate del 2006, Mourinho e il Chelsea offrono 38 milioni al Betis per il suo talento. Lui però non vuole lasciare la Spagna, un flamencista de la banda lateral soffocherebbe nella plumbea Londra: un'ala tutta tecnica ed estro nella patria degli esterni scattisti prodotti in serie, la morte di qualsiasi eccellenza individuale. Per fortuna arriva l’offerta del Valencia, 25 kilos. Il presidente accetta l’offerta, ma non perde l’occasione per giocare un ultimo tiro mancino alla sua ala. I contratti vergati da Manuel Ruiz de Lopera obbligano i calciatori ad accettare qualsiasi meta egli proponga. Così, in un assolato pomeriggio, squilla il telefono; dall'altra parte della cornetta c’è il presidente: «Alle diciotto lei si deve recare ad Albacete per chiudere la sua cessione all'omonimo club. Se per quell'ora non sarà sul posto, le sarà comminata una multa da tre milioni di euro. La sua presenza dev'essere registrata da un Notaio». Joaquin si infila in auto e parte a tutta velocità verso Castilla y la Mancha. Una volta giunto sul luogo e scattate alcune foto per certificare l’effettiva presenza all'incontro, scopre di essere da solo, con le porte degli uffici chiuse. Fiutato l’imbroglio, decide di tornare a Siviglia, su tutte le furie con il presidente. Per fortuna la cessione ai pipistrelli va in porto: 25 milioni, acquisto più oneroso della storia del club.


La prima stagione in riva alla Comunidad è tutto sommato positiva, 5 gol in 35 presenze e quarto posto. Il Valencia ha una rosa di alto profilo, in quegli anni non molto inferiore a Real e Barcellona non brillantissime. Tuttavia il 2008 è tribolato, con ben tre cambi di panchina. Ronald Koeman, subentrato a metà stagione ad Oscar Fernandez che a sua volta aveva sostituito Quique Sanchez Flores, guida i suoi alla vittoria in Coppa del Re, 3 a 1 sul Getafe in finale. L’olandese verrà comunque esonerato cinque giorni dopo, il 21 aprile, causa un preoccupante quindicesimo posto. Il Valencia riuscirà a salvarsi chiudendo decimo. A partire dal 2008-09, inizia la parabola discendente di Joaquin, quasi come se per osmosi la decadenza del Club avesse afflitto il giocatore: sono gli anni del fallimento economico e il presidente Sorian, per arginare il dissesto, mette in vendita il Mestalla, non trovando però alcun acquirente. Il debito di 547 milioni di euro lo costringe a dimettersi. Da qui in poi, è tutta un'escalation di cessioni: David Villa, David Silva e anche Joaquin, superato per la verità nelle gerarchie da Pablo Hernandez e che preferisce perciò accasarsi a Malaga.

Ecco, diciamo che quella sera non si è tirato indietro neanche lui.

Ci troviamo anche qui dinanzi all'ennesima fanciulla sedotta e abbandonata. Lo sceicco Al Thani finanzia una squadra di buon livello, in grado di puntare al piazzamento Champions: Rondon (lo amo, aspetto solo di ammirarlo in Copa America!), Cazorla (lo amo, tocco di palla fuori dal comune), Mathjisen, Toulalan, Demichelis (invece lui lo detesto, è l’anticalcio) e ovviamente Joaquin sono le fondamenta su cui costruire il futuro. Gli andalusi conquistano il quarto posto, il sivigliano è titolare fisso, sembra tornato quello del Betis, pur con uno stile diverso, meno aggressivo e più felpato.


Il 2012-13 si prospetta roseo, col ritorno in Champions ed una condizione fisica ottimale. Ecco che allora altre cause di forza maggiore interrompono improvvisamente l’ascesi di Joaquin. Secondo Al Thani i politici locali non hanno mantenuto alcune promesse relative all'edificazione del nuovo stadio e di un Hotel nelle vicinanze. Il flusso di denaro diminuisce notevolmente, la rosa viene smantellata, tuttavia l’orgoglio dei calciatori e l’esplosione di Isco superano qualsiasi ostacolo economico: il Malaga conquista i quarti di finale di Champions League. La gara di ritorno col Borussia Dortmund rimarrà nella storia della competizione, semplicemente un thriller, con più suspance anche di Milan-Ajax del 2003. Dopo lo zero a zero della Rosaleda è proprio Joaquin a portare in vantaggio gli ospiti al 25’. Per tutta la partita porta a spasso Schmelzer, distribuendo continuamente palloni per i tagli degli attaccanti. I gialloneri comunque pareggiano con un contropiede perfetto finalizzato da Lewandowski. Ma all'81’ accade l’imponderabile: Isco premia il movimento di Julio Baptista con una verticalizzazione perfetta, il tiro del brasiliano è lento ed Eliseu riesce a spingerlo in porta. Due a uno a dieci minuti dalla fine, Malaga in paradiso, servirebbero due gol ai tedeschi. Ed ecco che al novantesimo, su un lancio innocuo dalla difesa, Demichelis ne combina una delle sue saltando a vuoto e regalando un gol al Borussia. Ne manca un altro comunque: ti aspetteresti la giocata di Reus, il colpo di testa di Lewandowski, l’assist geniale di Gotze. E invece, dopo una mischia, ci pensa Felipe Santana a ribadire in porta: passare dal cielo delle stelle fisse all'ultimo girone dell’inferno in meno di cinque minuti. Il difensore brasiliano scrive la parola fine sull'esperienza malaguena di Joaquin, dopo una sconfitta così non ci sono più stimoli per continuare. 

Non scomparire nelle partite che contano anzi, di più, esserne protagonista.

Il 12 giugno 2013 viene acquistato a titolo definitivo per 2 milioni di euro dalla Fiorentina. Lascia la Spagna, lascia quell'Andalusia che prima con Siviglia lo aveva cresciuto e lanciato e poi con Malaga gli aveva dato un'altra possibilità. Lascia la Liga, 12 anni di Liga, 12 anni di tantissimi dribbling, 89 assist e 3000 cross.
Il primissimo impatto con il calcio italiano è di quelli difficili da interpretare e facili da spiegare. L'ala spagnola paga, a detta di Montella, una scarsa propensione al sacrificio negli allenamenti. L'ex Malaga però non tarda, grazie anche alla sua esperienza e al supporto dello staff tecnico, ad adattarsi ai nuovi ritmi del calcio italiano.
La vera vittoria però il cabinet di Montella l’ha ottenuta in un altro aspetto del gioco, la fase difensiva: mai nessun allenatore (fra i quali anche Manuel Pellegrini e Quique Sanchez Flores) era riuscito ad inculcare nella testa de El Pisha la dedizione alla fase meno nobile del gioco. Rispetto allo Joaquin versione spagnola, quello visto in riva all’Arno, ha aumentato di molto la porzione di campo coperta quando c’è da rincorrere l’avversario. 

Joaquin torero

Segna il suo primo gol in maglia viola il 20 ottobre 2013 nella gara di campionato Fiorentina-Juventus (4-2).
La prima stagione in serie A si conclude con 27 presenze e 2 gol, 37 e 5 complessivamente in stagione.

Il gol di Joaquin alla Juventus.

Non sono tanto le cifre, seppur rispettabili, a definire l'importanza di Joaquin. Lo spagnolo non è palesemente più l'ala tutta sprint e dribbling di un tempo, il fisico è cambiato, la testa pure. La classe e la qualità, però, unite all'esperienza accumulata gli consentono di essere ancora determinante, magari con altri compiti e in un altro contesto di gioco. La sua lettura enciclopedica delle azioni offensive è un'arma che usa con saggezza ed equilibrio. Semplicità di giocata, padronanza e controllo degli spazi, tocchi semplici e utili, intelligenza tattica raffinata: è questo il nuovo repertorio, completamente agli antipodi con la rapidità supersonica con il pallone tra i piedi di inizio carriera. L'eleganza, però, è sempre la stessa, immutata.
Tatticamente, il nuovo Joaquin di Firenze offre molte possibilità. Arriva come vice Cuadrado nel 3-5-2 ma progressivamente, anche per la fluidità del modulo tattico viola, ricopre i ruoli di esterno alto d'attacco o di seconda punta.
L'impressione dominante che si ha, vedendolo giocare, è che la squadra diventi automaticamente più organizzata e sicura al suo ingresso.
A Firenze lo hanno rinominato "mata grandi" per aver segnato in campionato solo contro Juventus (nello storico 4-2) e Napoli (gol decisivo al San Paolo).
La stagione successiva, cioè questa che è appena finita, inizia così come era partita la prima. Joaquin ha tante difficoltà, stavolta legate al modulo. I primi mesi sono davvero duri. Né il 4-3-1-2 né il 3-5-2 gli permettono di avere un posto stabilmente fisso da titolare, Montella lo vede esclusivamente come esterno puro d'attacco, al massimo seconda punta, ma molto raramente. Questa volta è il profilo tattico della Fiorentina a penalizzarlo ma El Pisha non cade neanche stavolta, lavoro giorno dopo giorno e risponde a tutti: critiche, avversari, detrattori. Joaquin ha bisogno di giocare con continuità ma improvvisamente capisce che può diventare un'arma tattica devastante da usare a partita in corso. Come nella partita contro il Milan quando entra negli ultimi minuti e con un assist e un gol ribalta il risultato.
Ci sono state altre perle del talento dell'andaluso. Quel gol contro il Palermo, ad esempio, bello come un dipinto di Velazquez. È impressionante come si riesca a cogliere l'aurea del suo talento in quello che fa: sacralizza ogni tocco, ogni finta, ogni dribbling.  

Classe, tecnica e reminescenza. Leggerezza applicata al calcio.

Forse quella continuità nella storia di Joaquin è rappresentata metaforicamente dalla linea laterale, quella linea di campo che lo spagnolo ha sempre accarezzato sfidando gli avversari.
Oppure l'elemento di continuità per Joaquin è espresso perfettamente dal soprannome che aveva a Siviglia: "la finta y el sprint", la finta e lo scatto, quella capacità di fermarsi e ripartire. Si è fermato tante volte e tante volte lo hanno dato per finito o lo hanno considerato una delusione; ma è sempre ripartito.
O forse, ancora, la vera natura dell'andaluso va ricercata nel suo soprannome originario. El Pisha è un soprannome particolare, qualcuno che riesce ad eccellere in un determinato campo (sportivo, artistico, etc.) ma è anche una forma amichevole di salutare gli amici più intimi. Eccellenza e intimità, familiarità. Niente riesce ad esprimere meglio il concetto totale "Joaquin", prima dell'uomo e del calciatore.



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